Non sempre i vulcani si presentano con la teatralità che ci si aspetta: un cono imponente, un cratere fumante, colate di lava che scolpiscono il paesaggio. I Campi Flegrei, invece, sono un vulcano che si nasconde. È un colosso sdraiato sotto la terra e il mare, tanto esteso quanto silenzioso, il cui respiro si misura più nel sollevamento di un marciapiede che nell’eruzione spettacolare. Eppure, è proprio qui che si cela una delle realtà geologiche più complesse e potenzialmente pericolose del pianeta.
Negli ultimi mesi, i Campi Flegrei sono tornati al centro dell’attenzione scientifica e mediatica. Il suolo si solleva, lentamente ma inesorabilmente. I sismografi registrano scosse quotidiane, a volte impercettibili, altre volte no. È il fenomeno del bradisismo, una sorta di marea geologica che alza e abbassa il terreno senza necessariamente portare a un’eruzione. Ma i suoi effetti sono visibili: crepe nelle case, evacuazioni precauzionali, interrogativi che si moltiplicano.
Ci troviamo in una delle zone più densamente popolate d’Europa, un’area urbana che comprende città come Pozzuoli, Bacoli, Quarto, fino ai quartieri occidentali di Napoli. Qui abitano oltre mezzo milione di persone, tutte potenzialmente coinvolte in caso di eruzione. Ma il rischio vulcanico non è una novità per queste terre. Anzi, è un’eredità con cui si convive da secoli, tra momenti di apparente tranquillità e improvvise accelerazioni.
La particolarità dei Campi Flegrei sta nella loro natura di caldera: una vasta depressione formatasi circa 39.000 anni fa, in seguito a una delle più catastrofiche eruzioni che l’Europa ricordi, nota come Ignimbrite Campana. Quell’evento fu talmente violento da modificare il clima globale e lasciare tracce geologiche visibili fino in Russia. Da allora, il vulcano non è mai stato davvero “spento”. Ha semplicemente modulato la sua attività, alternando lunghi periodi di quiete a improvvisi risvegli.
Quello che preoccupa oggi è la tendenza alla riattivazione. Il sollevamento del suolo, che ha raggiunto i 113 centimetri dagli anni Cinquanta a oggi, e l’aumento delle micro-scosse indicano che qualcosa si sta muovendo in profondità. Gli scienziati parlano di una possibile transizione da un sistema idrotermale — dominato da vapore e fluidi — a uno magmatico, con intrusione di magma nella crosta. Un passaggio cruciale, che potrebbe modificare lo scenario di rischio.
Ma l’incertezza regna sovrana. Le attuali deformazioni non indicano necessariamente un’eruzione imminente. Potrebbero arrestarsi, rallentare, oppure evolvere in direzioni diverse. Ed è qui che si gioca la sfida più grande: interpretare i segnali di un vulcano che parla un linguaggio sottile, fatto di centimetri e tremori. Per questo la sorveglianza scientifica è fondamentale. L’INGV, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, ha intensificato il monitoraggio, installando nuovi sensori e aggiornando i modelli predittivi.
Tuttavia, la comunicazione del rischio resta un nodo critico. Il confine tra allerta e allarmismo è sottile. Come spiegare alla popolazione che l’attenzione è alta, ma non bisogna fuggire? Come prepararsi senza cedere alla paura? Le esercitazioni di evacuazione organizzate dalla Protezione Civile, sebbene spesso accolte con scetticismo, rappresentano un tentativo concreto di creare consapevolezza. Ma ancora oggi, molti residenti ignorano cosa fare in caso di emergenza, o peggio, non vogliono pensarci.
Intanto, la vita continua. Le strade di Pozzuoli sono animate, i mercati brulicano, i turisti passeggiano tra i resti dell’Anfiteatro Flavio e le fumarole della Solfatara. La minaccia del vulcano resta sullo sfondo, come un rumore bianco che si impara a ignorare. Ma sotto i piedi, il gigante dormiente si muove.
Giacinto RUSSO PEPE