domenica 27 Apr 2025

Questo articolo intende offrire una panoramica esaustiva e articolata degli eventi che hanno segnato l’Ucraina negli ultimi venticinque anni. Intendiamo offrire una riflessione profonda su come le dinamiche interne ed esterne abbiano condotto quel Paese a uno stato di conflitto acuto sfociato in una guerra catastrofica. La ricostruzione storica, che si sviluppa da una fase di apparente neutralità a quella della guerra civile e dello scontro diretto con le forze russe, evidenzia come le scelte politiche – sia interne che dettate da attori esterni – abbiano plasmato il destino di quella nazione.

Con la speranza che la comunità internazionale possa trarre insegnamento da questo lungo e doloroso percorso, il futuro dell’Ucraina resta oggi al centro di dibattiti e trattative, in attesa di una svolta che possa finalmente dare spazio a una ricostruzione condivisa e a una pace duratura. All’inizio degli anni Duemila, l’Ucraina si afferma come nazione indipendente, scelta obbligata per rimanere neutrale in un contesto di dura contrapposizione tra la Russia e la NATO. La decisione di perseguire una politica di equilibrio, evitando di schierarsi apertamente con una delle due grandi potenze, rappresenta il presupposto da cui nasce un percorso politico complesso e segnato da contraddizioni.

La storia moderna del Paese, infatti, è costellata di scelte strategiche e colpi di scena che hanno influenzato non solo il destino nazionale ma anche l’assetto geopolitico della regione. Nel 2004, l’Ucraina elegge presidente Viktor Yanukovich, un politico noto per il suo orientamento neutrale. Tale scelta, simbolo della volontà di non essere trascinati nelle rivalità esterne, viene però messa in discussione con l’insorgenza della rivolta popolare “arancione” che, negli anni successivi, si trasforma in un movimento di massa. Le proteste, da sempre animate da istanze di rinnovamento, acquisiscono una connotazione internazionale: gli Stati Uniti, fortemente impegnati nel promuovere l’adesione dell’Ucraina alla NATO, offrono supporto economico e politico al movimento, nonostante il sentimento prevalente della popolazione sembri orientato a mantenere la neutralità.

Nel 2010, Yanukovich viene rieletto, a dimostrazione del fatto che molti cittadini preferivano una linea di politica che non prevedesse un allontanamento né verso l’Europa né verso Mosca. Tuttavia, l’assetto politico subisce una svolta nel 2013, quando si apre un bivio decisivo: da una parte, l’Unione Europea propone a Kiev un accordo commerciale del valore di tre miliardi di dollari, concepito come primo passo verso una più profonda integrazione con l’Occidente; dall’altra, Vladimir Putin, al vertice della Russia, mette in campo un’offerta alternativa, comprendente un’unione doganale con Bielorussia e Kazakistan e benefici economici per l’Ucraina, tra cui una riduzione immediata dei prezzi del gas e un prestito di venti miliardi di dollari. Il 21 novembre di quell’anno, Yanukovich decide di sospendere l’accordo con l’Europa, spinto dalle pressioni economiche e dalle clausole imposte dal Fondo Monetario Internazionale, che prevedevano misure di austerità come riforme del welfare, privatizzazioni e un sostanziale aumento delle tariffe del gas.

Al contempo, il Cremlino rafforza la sua proposta, riducendo i costi energetici e presentando una visione di integrazione economica che appare più vantaggiosa per un Paese in difficoltà. La decisione di orientarsi verso Mosca non passa inosservata. Piazza Maidan, simbolo della democrazia e della partecipazione popolare, si riempie nuovamente di cittadini che manifestano il desiderio di vedere un cambiamento radicale. Le proteste, inizialmente incentrate sull’accordo economico, presto assumono tinte più politiche, in cui l’obiettivo diventa la cacciata di Viktor Yanukovich. In questo clima infiammato, personalità come i senatori statunitensi John McCain e Murphy, e l’inviata Victoria Nuland – nota per il suo lungo servizio sotto diverse amministrazioni americane – si fanno largo tra le fila dei manifestanti, dichiarando apertamente che gli Stati Uniti hanno investito ingenti risorse per orientare il futuro politico dell’Ucraina secondo interessi occidentali. Accanto a lei, Bob Kagan, marito di Nuland e fervente sostenitore di interventi militari in vari conflitti internazionali, alimenta il dibattito politico, ribadendo il ruolo degli Stati Uniti nella trasformazione degli assetti interni ucraini.

La protesta, però, assume una piega ancora più drammatica quando gli estremisti di destra, tra cui la coalizione Pravi Sektor e il partito Svoboda, entrano in campo, spingendo il movimento verso una radicalizzazione violenta. Le forze dell’ordine, in particolare le unità specializzate Berkut, rispondono con metodi repressivi che degenerano in scontri sanguinosi. Nei mesi successivi, l’escalation della violenza, caratterizzata da episodi di abusi, arresti e torture, porta a una situazione di crisi nazionale in cui le istituzioni sembrano incapaci di contenere il dissenso popolare. Il 6 febbraio 2014, emergono intercettazioni telefoniche tra Victoria Nuland e l’ambasciatore americano a Kiev, Pyatt, in cui si discute esplicitamente del rovesciamento di Yanukovich e della scelta dei futuri esponenti politici, tra cui un certo Yatseniuk, indicato come “uomo di fiducia” dagli Stati Uniti.

Tali registrazioni, che fanno rapidamente il giro dei media internazionali, contribuiscono a polarizzare ulteriormente l’opinione pubblica, alimentando l’idea che gli interessi esterni abbiano avuto un ruolo determinante nella crisi. Il clima di tensione culmina a febbraio 2014, quando, dopo una serie di intese mediate da Russia, Francia, Germania e Polonia, Yanukovich accetta una serie di misure conciliative: una riforma costituzionale, un governo di unità nazionale e elezioni anticipate. Tuttavia, la soluzione proposta non è accolta con entusiasmo dalle piazze, ormai infuocate dalla richiesta di rinnovamento radicale. L’emergere di simboli estremisti, come bandiere neonaziste, saluti fascisti e la diffusione di testi di carattere ideologico, insieme all’impiego di cecchini appostati, trasforma la crisi in un vero e proprio conflitto armato. Le vittime, tra cui numerosi manifestanti, agenti delle forze dell’ordine e civili, sono il triste saldo di una rivolta che si trasforma in una guerra civile interna.

Le indagini e le analisi, condotte anche da esperti come il professore ucraino-canadese Katchanovski, fanno emergere che il fuoco sparato durante gli scontri non proviene esclusivamente dalle forze governative, bensì anche da gruppi estremisti infiltrati tra i manifestanti. Tale interpretazione, confermata in seguito da organi internazionali come la BBC, evidenzia la complessità degli eventi e la presenza di molteplici attori con agende contrastanti. Il 22 febbraio 2014, Yanukovich abbandona la capitale e si rifugia in regioni orientali, mentre il Parlamento viene occupato dagli oppositori che, in un clima di grande fermento, nominano come nuovo premier lo stesso Yatseniuk, il “nostro uomo” prescelto durante le intercettazioni.

Questo cambio di potere, tuttavia, non viene riconosciuto da tutte le regioni: nel Sud e nell’Est, dove la popolazione rimane fortemente legata alla cultura russa, si percepisce un tradimento nei confronti della scelta espressa dal popolo, con conseguenti proteste e l’accusa di colpo di Stato. Nei mesi successivi, l’esercito ucraino, spaccato dalle proprie divisioni, si trova a fronteggiare sia le manifestazioni popolari che la minaccia di milizie private, tra cui i famigerati battaglioni Azov e Ar Dnipro Tornado Donbass, che vengono impiegati per reprimere le rivolte nel Donbass. L’insorgere di questi gruppi paramilitari, sostenuti dalla NATO e finanziati da oligarchi locali, trasforma il conflitto in una guerra civile di proporzioni devastanti, con una pesante perdita di vite umane e un’ondata di sfollamenti. Parallelamente, in Crimea si assiste a un episodio decisivo: il Consiglio supremo locale, in seguito a un referendum, opta per l’annessione alla Russia.

Tale mossa, rapida e senza spargimenti di sangue, viene condannata dalla maggior parte della comunità internazionale, nonostante il principio di autodeterminazione sia richiamato con vigore. L’annessione della Crimea si inserisce in un quadro geopolitico dove, mentre l’Occidente aveva recentemente sostenuto la secessione del Kosovo dalla Serbia, ora si rifiuta di riconoscere la stessa logica applicata ad altre regioni. Nel maggio 2014, a Odessa, le tensioni raggiungono un livello drammatico: migliaia di cittadini che protestano contro il nuovo assetto politico vengono attaccati da gruppi nazionalisti e neofascisti, con esiti tragici come la morte di numerose persone e feriti in serie. Contestualmente, nelle regioni dell’Est, si tiene un referendum che porta alla proclamazione di due repubbliche autoproclamate, Donesk e Lughansk, con percentuali di approvazione che superano il 79–86%. Queste entità, seppur sostenute dalla Russia, non ricevono il riconoscimento ufficiale dal Cremlino, che preferisce adottare un approccio ambiguo e cauto.

Il governo di Kiev risponde inviando ulteriori truppe per cercare di ristabilire il controllo sulle aree separatiste, mentre Stati Uniti e Regno Unito intensificano il loro sostegno militare e strategico, contribuendo alla riorganizzazione delle forze armate ucraine e al rafforzamento dei corpi speciali tramite l’intelligence della CIA. Il clima di guerra civile e le tensioni regionali si fanno così sempre più insostenibili, gettando le basi per ulteriori scontri e una graduale escalation del conflitto. Nel maggio dello stesso anno si tengono nuove elezioni presidenziali: si rende necessaria la sostituzione del presidente caduto in disgrazia e, contro le aspettative di una scelta riformista, vince Petro Poroshenko, un oligarca miliardario noto come “il re del cioccolato” per il suo passato imprenditoriale e per il controllo di importanti mezzi di comunicazione.

La sua ascesa al potere, accompagnata dalla nomina di figure come Julia Timoscienko – una reginetta della protesta di piazza, poi arrestata per malversazioni – contribuisce a polarizzare ulteriormente l’opinione pubblica. Poroshenko, sostenuto da settori estremisti e con una retorica che contrappone “noi” e “loro”, si pone come fautore di politiche che escludono i russofoni, segnando l’inizio di una fase di repressione e di intensificazione degli scontri interni. Nel 2015, nel tentativo di sedare la spirale violenta e di cercare una tregua, si sigla l’Accordo di Minsk 2, un patto mediato da personalità come Angela Merkel e François Hollande. Questo accordo, che prevede il ritiro delle armi pesanti da una zona cuscinetto attorno al fronte e l’avvio di una riforma costituzionale volta a garantire un’autonomia speciale per il Donbass, appare come un possibile strumento per arrestare l’innesco della guerra civile. Tuttavia, il governo di Poroshenko, pressato dagli ultranazionalisti e dai gruppi radicali, viola rapidamente i termini dell’accordo, non procedendo alle necessarie amnistie e lasciando inalterato il potere delle milizie indipendentiste.

L’insistenza su politiche di integrazione con l’Unione Europea e la decisione di abrogare la legge sulla neutralità dell’Ucraina contribuiscono a delineare un nuovo assetto politico: il russo, in questo contesto, viene progressivamente escluso come lingua ufficiale, e il Partito Comunista viene posto fuori legge. Queste scelte, fortemente condizionate dai vertici occidentali e da società finanziate dalla Fondazione di George Soros, fanno precipitare il Paese in una spirale di conflitti che alimenta ulteriormente la guerra civile. Il governo, ora guidato da una coalizione in cui spiccano esponenti neofascisti e rappresentanti scelti da interessi esterni, decide di dare un’impostazione radicale alla politica interna, promuovendo misure che includono l’adesione a trattati e accordi con la NATO. La strategia, seppur sostenuta dagli Stati Uniti e da altri paesi europei, si scontra con il dissenso delle regioni storicamente legate alla Russia, dove si invoca il rispetto per la cultura e la lingua madre, e si denuncia un cambio di rotta che appare imposto dall’esterno. Il 2017 porta l’arrivo di Donald Trump negli Stati Uniti, che introduce una serie di riforme nel campo della politica estera e si pone contro il ruolo di Victoria Nuland e dei neoconservatori, riorientando le scelte strategiche dell’Occidente.

Nel 2019, dopo che Poroshenko ha fatto approvare dal Parlamento una riforma costituzionale che sancisce l’intenzione di avvicinarsi all’Unione Europea e, in modo più esplicito, alla NATO, l’Ucraina vive una svolta decisiva. Le elezioni presidenziali di quell’anno vedono la vittoria di Volodymyr Zelensky, un outsider di 41 anni, noto per la sua carriera nel mondo dello spettacolo e per essere di famiglia russofona ed ebraica. Con la sua candidatura, il “Servitore del Popolo” si presenta come l’anti-sistema, promettendo di porre fine alla corruzione e di risolvere la guerra civile. Tuttavia, il passato finanziario di Zelensky, segnato da sospetti legati a conti offshore e investimenti immobiliari come la villa a Forte dei Marmi, continua a sollevare dubbi sull’effettiva trasparenza della sua gestione. Nel contempo, il governo ucraino, sostenuto dagli Stati Uniti, prosegue una serie di esercitazioni militari congiunte e accordi di partenariato con la NATO, intensificando la pressione su Mosca. Le tensioni raggiungono il culmine nel 2021, quando, in seguito alla vittoria di Joe Biden, si rafforza il sostegno militare e strategico all’esercito di Kiev. Le esercitazioni congiunte e l’aumento delle truppe americane in Europa orientale sono accolti con preoccupazione da Mosca, che ammassa circa 90.000 soldati lungo il confine ucraino, alimentando il clima di sfiducia e sospetto reciproco.

In questo scenario, figure come Antony Blinken, responsabile della Segreteria di Stato, e il consigliere per la sicurezza nazionale Sullivan, giocano un ruolo cruciale nel mantenere alta l’attenzione sul conflitto, mentre le dichiarazioni di Kamala Harris, che asserisce che Putin ha già deciso di invadere, contribuiscono a creare un clima di inevitabilità. Dialoghi tesi tra Scholz, Zelensky e Macron cercano, senza però riuscire a scardinare le posizioni radicali, di trovare una soluzione diplomatica in un momento in cui la guerra civile sembra destinata a protrarsi. Nel febbraio 2022, la situazione precipita ulteriormente. Nonostante Zelensky abbia inizialmente promesso di rispettare gli accordi di Minsk e di avviare negoziati con Putin, il governo ucraino intensifica gli attacchi contro i russofoni del Donbass, mentre nelle capitali politiche, nelle piazze e nei corridoi del potere, si alternano colloqui e minacce che fanno presagire un conflitto su larga scala. Il 15 dicembre, Macron e altri leader europei cercano ancora una volta di convincere Zelensky a rinunciare all’adesione alla NATO, sottolineando che l’ingresso nell’alleanza atlantica non può essere determinato da pressioni esterne.

Intanto, il Cremlino propone, in una bozza di trattato, nove punti che includerebbero l’impegno reciproco a non intraprendere attività che minaccino la sicurezza dell’altro, il divieto di un ulteriore allargamento della NATO in ex repubbliche sovietiche e il blocco di schieramenti di armi nucleari. La risposta di Jens Stoltenberg, che afferma con fermezza che l’ingresso nell’alleanza spetta esclusivamente alla NATO e non a Mosca, contribuisce a far precipitare ulteriormente le tensioni. Il 24 febbraio 2022, a cinque del mattino, le truppe russe invadono l’Ucraina, scatenando una guerra che muta radicalmente il destino del Paese. L’operazione militare, che si svolge in un clima di retorica bellicosa e di crescente mobilitazione internazionale, è il culmine di anni di tensioni accumulate e di scelte strategiche che hanno condotto l’Ucraina su una strada senza ritorno. La rapidità dell’avanzata russa, unita alla reazione internazionale con sanzioni e interventi militari a sostegno di Kiev, trasforma la crisi in un conflitto globale, capace di influenzare l’assetto geopolitico dell’intera regione euro-atlantica.

Le prime ore dell’invasione sono caratterizzate da scontri intensi, in cui le tattiche militari tradizionali si mescolano a operazioni di guerriglia urbana. Le immagini trasmesse dai media mostrano la distruzione di infrastrutture, l’esodo di civili e una comunità internazionale divisa tra chi esorta a una risposta militare decisa e chi invoca la cautela per evitare un’escalation incontrollata. La presenza di forze statunitensi, britanniche e di altri alleati che si affacciano prontamente a sostenere il governo di Zelensky, contrapposta alla retorica di Mosca, evidenzia il drammatico scontro di interessi in corso. Il conflitto si estende rapidamente, coinvolgendo non solo le regioni del Donbass ma anche la penisola di Crimea, dove la presenza di truppe russe è stata consolidata senza spargimenti di sangue. Le conseguenze umanitarie sono catastrofiche: migliaia di morti, decine di migliaia di feriti e un numero crescente di profughi interni ed esterni, costretti a lasciare le loro case in un Paese lacerato da anni di scontri e repressioni. I diplomatici internazionali, inclusi rappresentanti di Biden, Scholz, Macron e altri leader globali, tentano di mediare in un contesto estremamente complicato, dove ogni parola e ogni gesto possono determinare il corso degli eventi.

Le conversazioni telefoniche tra Biden e Putin, così come gli incontri ad alto livello tra rappresentanti delle varie potenze, vengono analizzate con attenzione, ma il clima di sfiducia reciproca e la presenza di interessi contrastanti rendono difficile pervenire a una soluzione condivisa. La vicenda ucraina degli ultimi due decenni offre una lezione amara sulle conseguenze delle scelte politiche e delle influenze esterne. Da Viktor Yanukovich a Volodymyr Zelensky, da Victoria Nuland e Bob Kagan a Merkel, Hollande, Scholz, Macron, Blinken e Lavrov, i protagonisti di questa lunga crisi hanno condotto il Paese attraverso un percorso fatto di speranze, delusioni e scontri violenti. Le scelte fatte in momenti cruciali – dalla sospensione dell’accordo con l’Unione Europea alla decisione di abbracciare la proposta russa, fino all’elezione di leader che hanno saputo sfruttare le divisioni interne – hanno tracciato il cammino verso una guerra civile che, pur essendo iniziata come una lotta per l’autodeterminazione, si è trasformata in un palcoscenico per interessi geopolitici ben più ampi.

Oggi l’Ucraina si trova a dover ricostruire non solo le proprie infrastrutture fisiche, ma anche il tessuto sociale e politico, fortemente lacerato da anni di conflitto. Le ferite inflitte dalla violenza, le divisioni tra comunità russofone e filo-occidentali e l’influenza dei grandi poteri continuano a complicare ogni tentativo di riconciliazione. La sfida è duplice: da un lato, la necessità di garantire la sicurezza e la sovranità di un Paese che ha scelto di non schierarsi apertamente, e dall’altro, la ricerca di un equilibrio in un sistema internazionale in cui le alleanze e le rivalità si rinnovano costantemente. Il percorso che ha portato dall’elezione di Yanukovich al rovesciamento di un governo e all’invasione del 2022 rappresenta un monito sul prezzo pagato da una nazione divisa tra interessi interni ed esterni. La storia recente dell’Ucraina è un esempio lampante di come la politica, gli interessi economici e le influenze geopolitiche possano convergere in un turbinio di eventi che sconvolgono il destino di interi popoli. Con l’avanzata delle truppe russe e l’inasprirsi del conflitto, il mondo intero si trova a dover affrontare le conseguenze di scelte strategiche e di un sistema internazionale che, troppo spesso, sembra favorire il potere al di sopra della giustizia e della stabilità.

La lezione che emerge è chiara: il rispetto per la sovranità nazionale e il diritto all’autodeterminazione non possono essere sacrificati sull’altare degli interessi geopolitici. La crisi ucraina, con tutti i suoi protagonisti – da Yanukovich a Zelensky, passando per le figure chiave di Washington, di Mosca e di Bruxelles – rimane un caso emblematico delle difficoltà nel coniugare sicurezza e libertà in un mondo globalizzato. Mentre il conflitto prosegue e le trattative diplomatiche continuano a vacillare, il futuro dell’Ucraina appare incerto, segnato da una lunga strada da percorrere per ricostruire un Paese ferito e diviso. La speranza risiede nella capacità degli attori internazionali di superare le divergenze e di lavorare insieme per un obiettivo comune: la pace e la stabilità, basate su un reale rispetto per la sovranità e per i diritti di ogni cittadino.

Con questo sguardo critico e analitico, si conclude un resoconto che non si limita a narrare una serie di eventi, ma che cerca di far luce sulle dinamiche di potere che hanno coinvolto nomi come Viktor Yanukovich, Vladimir Putin, Barack Obama, Joe Biden, John McCain, Murphy, Victoria Nuland, Bob Kagan, Yatseniuk, Angela Merkel, François Hollande, Petro Poroshenko, Julia Timoscienko, Volodymyr Zelensky, Donald Trump, Jens Stoltenberg, Emmanuel Macron, Antony Blinken, Sergey Lavrov e Olaf Scholz. Sono tutti parte integrante di una narrazione complessa, fatta di scelte politiche, errori e tentativi di riconciliazione che hanno lasciato cicatrici profonde. Il racconto degli ultimi vent’anni in Ucraina si configura così come una testimonianza della fragilità degli equilibri internazionali, della difficoltà nel mantenere una politica indipendente e delle conseguenze inevitabili quando interessi esterni e dinamiche interne si scontrano senza tregua.

Di fronte alla minaccia di ulteriori escalation, è fondamentale che il dialogo e la cooperazione internazionale prevalgano sulla retorica bellicosa, affinché il Paese possa un giorno tornare a percorrere la strada della pace e della ricostruzione. In definitiva, la crisi ucraina rappresenta non solo una tragedia per quella nazione, ma anche un campanello d’allarme per l’intera comunità internazionale: la necessità di trovare soluzioni condivise, basate sul rispetto reciproco e sulla consapevolezza che la sicurezza di una nazione non deve essere sacrificata per ambizioni geopolitiche. È un invito a ripensare l’assetto globale, affinché le scelte di oggi possano prevenire tragedie simili in futuro e garantire un mondo in cui la giustizia e la pace siano valori universali.

Giuseppe Cristiano